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Soppressata

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La soppressata è un’eccellenza  gastronomica italiana, una delle tipicità campane-lucane-calabresi più amate che ha scritto la storia degli Italiani oltreoceano e nel mondo.

La soppressata, detta anche soppressa, ha origini antiche. Sembra che già nella prima metà del 1700 si producesse in Basilicata-Alta Irpinia. Questa ipotesi è supportata anche dal fatto che la sua denominazione deriva proprio da due termini in dialetto locale sopperzata e subburzzata, a indicare il particolare procedimento di pressatura a cui il salume viene sottoposto che conferisce ad esso una forma, appunto, schiacciata.

Per la sua bontà, ma soprattutto per la proprietà assai spiccata di poter essere conservata (e quindi portata con sé), la soppressata fece fortuna con gli emigranti negli Stati Uniti d’America, fin dagli inizi del Novecento. Partita pe’ terre assaje luntane, come canta la canzone napoletana, con tanti meridionali che la portarono con sé nella valigia di cartone, insieme ai propri sogni e alle proprie speranze di una vita migliore, ben presto la soppressata si diffuse negli States. Qui, a tutt’oggi, si conferma uno dei prodotti italiani più apprezzati e importati.

Fino a qualche anno fa, nelle aree rurali meridionali italiane, molte famiglie crescevano il maiale che veniva alla fine sacrificato, nel corso di una grande festa (del maiale non si butta niente!), per produrre insaccati vari ed altre prelibatezze. Nella tradizione meridionale la soppressata viene prodotta esclusivamente con carne di maiale. Le parti utilizzate sono, essenzialmente, quelle magre come il filetto, la spalla e la coscia. Tagliate a punta di coltello, secondo tradizione, esse vengono unite al lardo che conferisce all’impasto la giusta morbidezza. Al composto si aggiungono sale, pepe nero in grani e in alcune varianti semi di finocchio o, come nel caso della soppressata calabrese, peperoncino essiccato in polvere o altre spezie.

Una volta realizzato, l’impasto viene posto all’interno di un budello, sempre di maiale, pressato e, quindi, legato con lo spago. A questo punto la soppressata è pronta per l’ultima fase di lavorazione, la stagionatura, che avviene in ambienti umidi e, talvolta, dotati di fonti di calore come il camino: questo consentirà alla soppressata di assumere, una forma schiacciata.

Particolare è la disposizione che viene data alle soppressate in fase questa fase: non vengono appese come il salame, bensì adagiate su ceste, assi di legno o altri contenitori dove saranno posizionate l’una sull’altra, così da favorire la pressione necessaria. La fase di stagionatura può durare da tre settimane a tre o più mesi e termina quando la soppressata ha raggiunto circa il 70% del suo peso iniziale.

Dopo la stagionatura, il salume è pronto per essere conservato in contenitori alti, di vetro e terracotta, messo sotto olio d’oliva o sugna, al fine di preservarne l’umidità.

Viaggiando nel Sud, alla scoperta delle tipicità locali, sono diverse le qualità di soppressata da assaggiare, ciascuna con una propria caratteristica relativa alla composizione dell’impasto, alle dimensioni e alla forma o ai tempi di stagionatura.

La Soppressata di Calabria DOP

La Soppressata di Calabria (o Suppizzata o suprissata o sopressata) è un insaccato a denominazione di origine protetta.

Si ottiene con carne di maiale tagliata a pezzettoni a cui si unisce pepe nero, sale e peperoncino calabrese rosso piccante (Disciplinare Soppressata Calabrese.

La Soppressata di Calabria viene preparata prendendo le parti migliori della coscia del maiale, tritate e private dei nervi e insaccate in budello naturale; in particolare bisogna usare il budello proveniente dall’intestino crasso, ben lavato con acqua, vino e limone e messo a mollo. Si usa anche il budello del bue che è più resistente. Una volta riempito il budello viene forato con uno spillo e legato a mano. Il tutto viene poi lasciato asciugare all’aria.

Vi sono due diversi modi di stagionatura. Nella Calabria settentrionale dopo riempito il budello viene lasciato ad asciugare all’aria e dopo circa due settimane si sistema sul pavimento un lenzuolo di lino e vi si adagiano le soppressate, le une vicine alle altre, con l’accortezza di lasciare tra esse uno spazio di circa un centimetro. Le soppressate vengono quindi coperte con un altro lenzuolo di lino, al disopra del quale viene poggiato un tavoliere (o un rigirato). Sul tavoliere vanno posti dei pesi in modo da ottenere quella pressatura che secondo alcuni (erroneamente secondo altri) conferirebbe il nome al salume. Dopo circa una settimana viene interrotta la pressatura e gli insaccati vengono messi ad asciugare.

Nella fase di asciugatura, della durata di circa due settimane, si usa spesso l’accorgimento di accendere un braciere nelle vicinanze per conferire al prodotto una leggera affumicatura; nel braciere vengono aggiunte scorze di arance per garantire un’affumicatura aromatica. Quindi si ripete l’operazione della pressatura (la “soppressa”).

Nella fase conclusiva le soppressate (da non confondere con le schiacciate, prodotte con altri tagli di carne, sempre suina) vengono lasciate stagionare per un periodo di cinque sei mesi.

Nella Calabria meridionale invece la “supprizzata”, dopo l’impasto (la carne va tritata al coltello) con sale e pepe nero (a volte si aggiungono semi di finocchio selvatico) e l’insaccamento nel budello, opportunamente suddivisa in grossi nodi, viene appesa alle travi del tetto a tegole (si tratta, in origine di un tipico prodotto contadino e le case di campagna erano tutte a tegole senza soffitta) della stanza ove in inverno era acceso il focolare che conferiva una leggera affumicatura. Oggi si appende sempre in alto in locale leggermente arieggiato e si lascia stagionare per almeno un mese per poi iniziare il consumo alimentare. Per conservarla in estate si usa porla in vasi di coccio salaturi con una pietra sopra per tenerla al di sotto del livello dell’olio.

Secondo un’altra ipotesi più accreditata il nome deriverebbe dalla fusione e contrazione di due termini: susu che in calabrese antico significa “sopra” “in alto” e ‘mpizzare che significa “appendere” quindi il significato è: appesa in alto. La tesi è suffragata anche dal fatto che esiste la suppizzata di tonno siciliana che non viene messa sotto pressa, ma anch’essa viene appesa in alto. Inoltre il salume in questione viene messo sotto pressa solo in alcune zone della Calabria ed, essendo indiscutibilmente un prodotto contadino di antica data, non sembra logico collegarlo con vocaboli dell’italiano (pressa) che non esiste nel calabrese antico e neppure si può collegare col provenzale moderno come alcuni fantasiosamente sostengono, per ovvi ed evidenti motivi.

In conclusione, la soppressata di Calabria si differenzia dalle altre per l’aggiunta all’impasto di polvere di peperoncino che, dolce o piccante, conferisce al salume una sfumatura di colore rossastro più o meno carica.

Il segreto per come fare la soppressata calabrese a regola d’arte è tramandato di generazione in generazione. Dalla forma leggermente più affusolata, rispetto alle altre, la soppressata calabrese è stata anche insignita del marchio DOP, denominazione di origine prodotta e la sua stagionatura, della durata di circa 70 giorni, è relativamente breve.

La soppressata lucana, al contrario, segue una stagionatura che arriva fino a cinque mesi di durata.

La soppressata campana, e in particolare la soppressata di Gioi, differisce da quelle prodotte in altre regioni per la sua forma meno allungata e più tonda e anche per la disposizione delle parti grasse all’interno dell’impasto: un vero unicum nel panorama della produzione di questo salume. In Campania, oltre a quella di Gioi che è presidio Slow Food e prodotto tipico del piccolo borgo cilentano in provincia di Salerno, vi è la soppressata irpina che ha conservato, nel tempo, tutta l’autenticità dei sapori di un tempo. Preparata secondo tradizione, con parti di prosciutto di maiale, fondelli e baldelle si caratterizza per la bassa percentuale di grasso utilizzata che non supera il 10%.

In Campania, è rinomata la soppressata caggianese. In questo caso, l’area di produzione ricade nel territorio della provincia di Salerno, e più specificatamente nel comune di Caggiano.

Si tratta di un salume insaccato di forma cilindrica leggermente schiacciata, legata in senso verticale ed orizzontale, formando 4 lobi; il colore esterno è rosso scuro, che con la stagionatura tende al bruno; l’interno è rosso porpora, leggermente più scuro ai bordi e sono ben visibili i pezzi di lardo di colore bianco. La sua lunghezza varia da un minimo di 10 cm ad un massimo di 15 cm; la larghezza da un minimo di 5 ad un massimo di 9 cm; il peso varia da 200 a 500 grammi. Il prodotto ha sentori tipici della stagionatura in ambienti tradizionali, prevalenza netta di sapidità e sentori di pepe, con retrogusto di vino rosso e grande persistenza delle sensazioni gustative. Il prodotto si presenta molto compatto per via della doppia legatura, privo di vuoti interni e fessurazioni.

Le parti del suino utilizzate sono quelle estremamente magre provenienti dal dorso e dalla natica; il lardo utilizzato è quello del dorso. La selezione della materia prima avviene manualmente. Il tratto di intestino di maiale usato per insaccarla è l’intestino cieco: è lungo da 25 a 45 metri ed è consigliabile tagliarlo in più pezzi per facilitare sia il lavaggio che la fase di riempimento. Molta cura e attenzione va prestata per il lavaggio dell’intestino. Infatti è assolutamente necessario lavarlo con acqua fredda, anzi freddissima al fine di evitare qualsiasi proliferazione batterica. Anche la temperatura dell’ambiente in cui si andrà a produrre il salume deve essere piuttosto bassa: è consigliabile che sia al disotto dei 19°C. Dopo la selezione della materia prima, la stessa viene triturata con il coltello, per almeno il 20%, o con il tritacarne, e in quest’ultimo caso con stampi con fori del diametro max di 6 mm. Invece la triturazione del grasso avviene manualmente in modo da ottenere piccoli cubetti. Si condisce la carne triturata con Kg 2.5-3 di sale da cucina, grammi 1-2.5 di pepe in grani e 50 litri di vino, per ogni 100 Kg di carne fresca. Si impasta il tutto manualmente e si procede con l’insaccamento che avviene sempre manualmente ed in modo del tutto caratteristico, utilizzando un apposito utensile, di forma cilindrica e di diametro opportuno, per tenere teso il budello e favorire un insaccamento ottimale dell’impasto, utilizzando solo budelli naturali di suini.

Il budello deve essere prima privato di una parte del grasso da cui è avvolto, servendosi di piccole forbici ben pulite ed affilate, ma senza affondare troppo per non rischiare di romperlo; va sciacquato abbondantemente, poi va rovesciato sottosopra come un calzino. A questo punto, si continua a sciacquare, sempre delicatamente, anche la parte interna che ora invece risulta esterna e lasciarlo in ammollo in acqua e limone per qualche ora. Trascorso questo tempo, occorre risciacquare abbondantemente sotto acqua corrente e lasciare di nuovo in ammollo con acqua e limone.

Per insaccare la carne, è opportuno lasciare il budello rovesciato, in modo tale che la parte che stava a contatto con le feci rimanga all’esterno, mentre la parte esterna – con il grasso rimasto intorno – deve rimanere all’interno. Tutto questo va fatto sia che si compri il budello fresco, sia che si compri quello sotto sale. Il budello ripieno viene legato con spaghi di canapa e forato per facilitarne l’asciugatura. Dopo aver impastato la carne triturata si prende un quantitativo di impasto e lo si modella facendolo rotolare su un piano e compattandolo con le mani, bagnando l’impasto e le mani con vino rosso, e dando una forma affusolata. L’insaccamento avviene facendo rotolare l’impasto preformato su un tavolo di legno e portandolo sul bordo dello stesso per farlo entrare nel budello. In questo movimento si deve far attenzione a conservare la compattezza dell’impasto e quindi la forma data precedentemente. Una volta insaccato, il budello ripieno viene legato con spaghi di canapa, incrociandolo secondo le due dimensioni e contemporaneamente viene forato con colpi di forchetta, per facilitarne l’asciugatura e permettendo così agli eventuali liquidi, ma soprattutto all’aria, di fuoriuscire.

Le soppressate così confezionate vengono riposte in un contenitore forato (una cassetta di plastica della frutta e verdura o una cesta di vimini) e, facendo attenzione a che nulla possa strappare o tagliare l’involucro delle soppressate, si accatastano una sull’altra ponendo sopra un peso adeguato ad esercitare una certa pressione (da cui il nome soppressata). La soppressata viene sottoposta a pressatura per almeno 24 ore, utilizzando pesi di misura adeguata a favorire il compattamento della carne e l’assunzione della caratteristica forma schiacciata. Si procede quindi all’asciugatura e stagionatura in locali tradizionali, ad una temperatura di 10°-18°C. Altro importante fattore da tenere sotto controllo è l’umidità, che se troppo eccessiva compromette la riuscita di un ottimo prodotto. Infatti durante il periodo di asciugatura e stagionatura i locali vanno arieggiati e in caso di eccessiva umidità occorre tenere ben chiusi i locali. Inoltre a tale scopo durante il periodo di asciugatura l’ideale è fare un po’ di fumo, mezz’ora al giorno: perciò circa ogni dieci giorni si accende il fuoco con legna secca di quercia ed aromatica nei locali. In tal modo si velocizza la stagionatura e si conferisce alla soppressata un leggero sapore di affumicato. In tal modo si accentua il sapore particolare della soppressata caggianese, dal quale si sprigiona un profumo tipico dell’affumicatura.

Il tempo di stagionatura varia a seconda del clima: infatti il clima freddo di Caggiano permette una stagionatura in un tempo più breve rispetto a climi più caldi. Di solito sono sufficienti un paio di mesi; l’avvenuta stagionatura è valutata in base alla consistenza della soppressata; terminata la stagionatura si ripulisce dallo strato superficiale di muffa con una pezzuola imbevuta di olio e aceto. Dopo la stagionatura la soppressata viene conservata sotto vuoto o sotto sugna.

Osservazioni sulla tradizionalità

La soppressata di Caggiano trae origini dalla tradizione lucana. La Lucania è oggi regione confinante con il territorio caggianese, ma un tempo Caggiano ne era parte integrante.

La soppressata caggianese da circa tre secoli viene prodotta nel territorio e le varianti di piccola entità caratterizzano e personalizzano il prodotto nei vari comuni.

La storia ricorda che a Napoli durante la Rivoluzione Partenopea del 1799, attraverso gli aristocratici caggianesi che vivevano lì, come Vincenzo Lupo e Giuseppe Abbamonte, fecero conoscere questo particolare salame dal gusto particolare, un pò affumicato e dal colore molto vivo, alla nobiltà napoletana di Palazzo Reale e che successivamente fecero arrivare in quantità crescenti sulle loro tavole.

Inoltre durante la prima fase di emigrazione nell’America Centrale (soprattutto a New York), la soppressata caggianese accompagnò i caggianesi ovunque nelle loro esperienze. Famoso è l’aneddoto legato al periodo di quarantena che tutti gli immigrati dovevano trascorrere nell’isola di Ellis (Ellis Island), prima di raggiungere le loro destinazioni. E in questa occasione tutti i caggianesi portavano, insieme ai loro bagagli, soppressate caggianesi, sia per la prelibatezza del prodotto e che per l’alto livello di conservazione che garantiva quel tipo di prodotto. Fu durante questo periodo che tante comunità apprezzarono il prodotto e successivamente ne fecero richiesta. Dagli anni cinquanta in poi la soppressata arrivò in America “nascosta” all’interno dei caciocavalli in quanto la normativa dell’epoca vietava l’ingresso di salumi per motivi igienico-sanitari.

La soppressata non è rimasta confinata al Sud Italia. Esiste infatti la soppressata toscana, caratterizzata dall’aggiunta di spezie, come il rosmarino, la buccia di arancia o di limone essiccata, a un impasto realizzato con l’utilizzo di parti meno nobili del maiale come la cotica, la lingua o la testa. A Vicenza e in tutta la sua provincia è possibile gustare una ottima soppressata dall’aroma assai particolare, sottoposta ad una stagionatura che sfiora i sei mesi, il cui impasto è arricchito dalla presenza di chiodi di garofano, aglio, rosmarino e zucchero.

La soppressata è un insaccato che, se ben conservato in maniera naturale o anche in confezione sottovuoto, può essere mangiato in ogni stagione dell’anno, da sola o abbinata, ad esempio, ad un buon piatto di polenta, ad una selezione di formaggi tipici, ad una fetta di caciocavallo stagionato semi piccante, ad un calice di rosso.

Redazione amaperbene.it

AMAxBenE è l’acronimo di AliMentAzione per il BenEssere

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