Piante ed erbe

Disa – Ampelodesmos mauritanicus

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La disa o saracchio (nome scientifico Ampelodesmos maurita-nicus (Poir.) T. Durand & Schinz, 1894) è una specie di pianta spermatofita monocotiledone appartenente alla famiglia Poaceae (sottofamiglia Pooideae).

Etimologia

Il nome generico (Ampelodesmos) deriva da due parole greche: αμπελος = vite e δεσμος = legame, al fatto che nell’antichità veniva usata per legare le viti; le foglie, lunghe e tenaci, vengono tuttora utilizzate da artigiani per impagliare le sedie e per produrre cordami. L’epiteto specifico (mauritanicus) indica una probabile origine della pianta dalla Mauritania, o più in generale dal Nord Africa (o in particolare dal Magreb). Il nome comune (tagliamani) deriva dai margini ruvido-taglienti delle foglie di questa pianta.

Il nome scientifico della specie (Ampelodesmos mauritanicus) è stato definito inizialmente dal botanico ed esploratore francese Jean Louis Marie Poiret (1755 – 1834) e perfezionato in seguito dal botanico belga Théophile Alexis Durand (1855 – 1912) e dal botanico ed esploratore svizzero Hans Schinz (1858 – 1941) nella pubblicazione “Conspectus Floræ Africæ; ou, Énumération des plantes d’Afrique. Bruxelles” (Consp. Fl. Afr. 5: 874. 1894) del 1894. Il genere (Ampelodesmos) è stato definito dal biologo, botanico e naturalista tedesco Johann Heinrich Friedrich Link (1767 – 1851) nella pubblicazione “Hortus Regius Botanicus Berolinensis descriptus” (Hort. Berol. 1: 136. 1827) del 1827. La tribù (Ampelodesmeae) è stata definita dal professore di botanica all’università di Leicester, autore dei trattati “Flora of the British Isles” e “Flora Europaea”, Thomas Gaskell Tutin (1908 – 1987) nella pubblicazione “Botanical Journal of the Linnean Society” (Bot. J. Linn. Soc. 76(4): 369. 1978) del 1978.

Descrizione

Con il nome di “disa” è comunemente conosciuto quel cespuglio rigoglioso, che cresce spontaneamente lungo le nostre coste, dal livello del mare fino a circa mille metri di quota. La pianta, con foglie sottili e taglienti per i bordi minutamente dentati, emette a primavera degli steli (busi) alti fino a due metri, con una inflorescenza apicale di circa cinquanta centimetri. Era conosciuta da tempi remoti in tutto il bacino del Mediterraneo come fibra per legare le viti, da qui il nome greco ampelos (vite) e desmos (legare).

A prima vista sembrerebbe tanto spontanea quanto inutile, persino di ostacolo ad altre colture, e invece sino agli anni 60 del Novecento, la “disa” ha costituito una risorsa importante nell’economia agricola e marinara del nostro territorio.

La raccolta delle foglie poteva avvenire in tutte le stagioni, ma i mesi più indicati erano quelli primaverili. Veniva falciata dal “disaloro”, che raccoglieva tante foglie quante ne poteva contenere nel palmo della mano, per poi tagliarle con la roncola. Le foglie così raccolte (manne) venivano fasciate usando corde (liame) realizzate dalle stesse foglie. Sei manne formavano un fascio, quattro fasci una salma di “disa”. Il carico veniva venduto attraverso intermediari (sensali) oppure portato in paese per essere lavorato.

Ai tempi in cui c’era poco per sopravvivere e si doveva mettere a frutto il proprio lavoro e l’ingegno, la “disa” trovava applicazione in tanti usi, da quelli più semplici di aiuto nella vita quotidiana ad altri più complessi, come la lavorazione industriale del crine e la realizzazione di gomene e corde di forte resistenza per la marineria.

In agricoltura i filamenti intrecciati, liame, servivano per legare i fasci di grano (regna) o di fieno (manna di fieno). Si realizzavano anche tappeti-zerbini e stuoie, usando lunghi treccioni arrotolati e legati su se stessi della forma voluta, o grandi ceste con manici, utili a contenere per la loro resistenza, del materiale umido, per esempio il letame delle stalle domestiche che gli ortolani (iardinara) prelevavano porta a porta, per usarlo come concime.

Con lo stelo lungo e sottile dell’inflorescenza della pianta, di sezione circolare (la busa), nel territorio di Monte San Giuliano, oggi Erice, si preparavano le busiate, tradizionale pasta di casa dalla forma a spirale ottenuta avvolgendo l’impasto attorno ai busi.

I busi erano usati perfino per costruire gabbiette di uccellini, infilandoli come sbarre nei fori praticati su una struttura di canna o di legno.

Più complessa e organizzata era invece la lavorazione della “disa” nella marineria. Risorsa economica essenziale soprattutto per Castellammare poiché fino al 1960 era il materiale di base per l’intreccio di corde e reti utilizzate nelle locali tonnare di Castellammare, Magazzinazzi e Scopello. La maestranza dei cordai era molto selettiva nell’acquisto della materia prima, sia grezza che semilavorata in cordicella (curdedda).

La “disa” raccolta, una volta essiccata, prima di essere utilizzata, era immersa nell’acqua per ore; era questo il primo di una serie di passaggi che servivano ad ammorbidire le fibre per facilitarne la lavorazione. La realizzazione della “curdedda” impegnava soprattutto le donne del Quartiere Petrazzi. Queste, in gruppi familiari e non, battevano con un mattarello la “disa” inumidita su pietre levigate. La fibra, resa flessibile dalla battitura, si torceva facilmente con un movimento veloce delle mani, dando vita ad un filato che si lasciava poi asciugare al sole.

Il filato ottenuto era venduto ai cordai che realizzavano il prodotto finale usando una grande ruota di legno che, girando su se stessa, univa più funi dando vita a corde di vario spessore e fattura. Anche la marineria mercantile godeva di questa risorsa essendo spesso coinvolta nella loro spedizione ed esportazione.

Altro importante utilizzo fu nella produzione di crine economico (il crine di qualità era quello preparato con la palma nana), soprattutto nell’imbottitura di materassi per i meno abbienti. Durante la seconda guerra mondiale le commesse di crine cardato provenivano dall’esercito Oggi, purtroppo, i materiali plastici e il moderno nylon hanno reso inutile l’uso dell’ampelodesma, condannando a definitiva scomparsa questa “arte povera”. Alcuni stilisti e progettisti hanno sperimentato nuove applicazioni della foglia della “disa”, trasformandola, con l’aiuto di capaci artigiani intrecciatori, in vestiti e oggetti di grande effetto nel campo della moda e dei complementi d’arredo. Nella realtà, tuttavia, la sua lavorazione non è compatibile con l’economia e le tecniche di produzione moderna.

Nativa delle regioni a clima mediterraneo, la specie è diffusa oltre che nell’Africa settentrionale, nelle zone costiere della Spagna, della Francia, dei Balcani, della Turchia e dell’Asia minore. In Italia è presente sulle pendici litoranee aride del centro-sud, in Sicilia e nella zona litoranea della Liguria (Portofino, Capo Noli, Capo Mele), dove la specie raggiunge il limite settentrionale della sua distribuzione in Italia.

Usi

In alcune zone d’Italia gli steli sottili, resistenti e lisci della spiga sono usati per arrotolare la pasta nella preparazione di fileda/fileja o anche maccarruna, detti ancora nell’Alto Tirreno Cosentino “fusilli” (analoga a quella che in altre zone è chiamata pasta a ferretto o ferretti).

Costituisce anche ottima materia prima per la carta.

Nelle zone di Cassaro e Ferla (Siracusa) ed a Ciminna (Palermo) in occasione del “Triunfu ra Marunnuzza” sono legati insieme diversi steli e utilizzati a mo’ di fiaccola durante le processioni in diverse attività religiose.

Nomi regionali in Italia

La pianta è conosciuta con diversi nomi nei vari dialetti: in Abruzzo in generale, e specialmente nella zona di Ortona, la pianta è conosciuta come Vèlla; in Campania è detta erba sparta, in Sicilia è chiamata liami (con significative varianti locali) e a Palermo disa, nel Cilento la pianta è detta cernicchiara, e sempre in Cilento, la corda ottenuta dalle foglie della pianta si chiama libbano, la cui origine ipotizzata è l’arabo o forse il greco. In Toscana, la pianta è molto diffusa in Maremma ed è conosciuta con il nome di sarracchio (zona dell’Argentario). In alcune zone della Calabria (ad esempio nell’altopiano del Poro) è detta gutumara, ed il materiale da essa ottenuto è detto gùtimu (cfr. ciarasu-ciarasara per ciliegia-ciliegio), in altre (quelle con più alta influenza grecanica) la pianta è conosciuta come lisàra. Nella riviera dei cedri è detta “cannoria” o “tunnara”. In Liguria viene chiamata erba lisca, è molto diffusa sul Promontorio di Portofino e una volta veniva usata per fare cordame. Nel Lazio meridionale è conosciuta come stramma. In Sicilia il suo fusto è denominato busa.

Redazione amaperbene.it

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