La logica delle disuguaglianze

I numeri delle disuguaglianze | Divari socioeconomici

Le disuguaglianze socioeconomiche fanno riferimento alle differenze nella distribuzione delle risorse economiche, del potere e delle opportunità tra gruppi sociali diversi; possono essere legate a fattori quali la classe sociale, la razza, l’etnia, l’orientamento sessuale, la disabilità e l’età. Ad esempio, le disuguaglianze socioeconomiche possono manifestarsi come differenze nel reddito, nell’istruzione, nell’occupazione, nell’accesso all’assistenza sanitaria, nell’alloggio e nell’accesso ai servizi pubblici. Queste disuguaglianze possono avere effetti cumulativi e duraturi su individui, famiglie e comunità, limitando le opportunità e le possibilità di successo. Ovviamente, le disuguaglianze socio-economiche possono avere effetti negativi sulla salute e sulla qualità della vita delle persone; ad esempio, possono aumentare il rischio di malattie croniche, come diabete e malattie cardiache, e possono anche contribuire alla mortalità precoce.

 

Il PIL pro capite è l’indicatore generalmente utilizzato per esprimere il livello di ricchezza per abitante prodotto da un territorio in un determinato periodo, consentendo di operare confronti tra aree di dimensione demografica diversa. Si calcola dividendo il valore assoluto del prodotto interno lordo per il numero di abitanti di uno stato. Il PIL pro capite non è una buona misura della ricchezza di un paese, in quanto non riflette gli squilibri tra ricchi e poveri.

 

L’Italia nel 2022 ha un PIL pro capite stimato di 51.062 dollari a parità di potere di acquisto. Una contrazione del PIL del 9,0% nel 2020 è stata seguita da un’espansione del 6,6% nel 2021 e da una previsione del 3,2% nel 2022, il che significa che l’economia italiana si è ripresa ai livelli pre-pandemia.

Per quanto riguarda i guadagni, la provincia di Milano è da sempre al primo posto, seguita da Monza Brianza, Bologna, Lecco, Parma e Bolzano. Per quanto riguarda il Sud, le dichiarazioni dei redditi più sostanziose vengono presentate a Napoli, che però si posiziona al 48° posto della classifica nazionale (era 42esima nel 2010).

 

Il Report sulla redistribuzione del reddito in Italia[1], predisposto da ISTAT, stima che nel 2022 l’insieme delle politiche sulle famiglie abbia ridotto la diseguaglianza (misurata dal coefficiente di Gini[2]) da 30,4% a 29,6%, e il rischio di povertà dal 18,6% al 16,8%. Le stime includono gli effetti dei principali interventi sui redditi familiari adottati nel 2022: la riforma Irpef, l’assegno unico e universale per i figli a carico, le indennità una tantum di 200 e 150 euro, i bonus per le bollette elettriche e del gas, l’anticipo della rivalutazione delle pensioni.

 

Nel 2020 l’intervento pubblico ha ridotto le disuguaglianze di reddito in Italia di 14,1 punti percentuali nell’indice di Gini. Si va dal 44,3% del reddito primario (ovvero prima dell’intervento redistributivo dello stato) al 30,2% del reddito disponibile (ovvero dopo l’azione pubblica dei trasferimenti monetari e dell’imposizione fiscale).

L’indice di Gini dei redditi è un indicatore che misura quanto essi sono concentrati in un certo numero di individui o di famiglie, e la sua funzione principale in economia consiste nella misura della disuguaglianza. Tanto più l’indice è elevato, tanto più i redditi sono concentrati in poche persone e dunque la disuguaglianza è maggiore e viceversa.

Lo Stato sociale italiano è in larga parte basato sul sistema pensionistico, che rappresenta la principale misura redistributiva. Tuttavia nel 2020 è aumentata molto anche l’importanza degli altri trasferimenti come la cassa integrazione o il reddito di cittadinanza. A queste vanno sommati i programmi straordinari per fronteggiare le conseguenze economiche dell’epidemia. Le simulazioni dell’istituto suggeriscono che le misure straordinarie, insieme all’ampliamento di quelle esistenti, hanno contribuito a sostenere i redditi delle famiglie riducendo la disuguaglianza. Se non ci fossero state, dice l’Istat, invece di ridursi al 30,2% l’indice di Gini sarebbe rimasto al 31,8%, quindi 1,6 punti in più. Nello stesso scenario, il rischio di povertà sarebbe stato del 19,1% invece che del 16,2% come invece è successo.

L’efficacia delle misure è stata maggiore per i disoccupati, per i quali il rischio di povertà è calato di 6,9 punti percentuali, e per gli inattivi (cioè chi non ha un lavoro né lo sta cercando) con 3,5 punti. Ben meno per gli autonomi dove invece la riduzione è stata di 2,6 punti. Questi ultimi avendo un lavoro sono meno esposti alla povertà di disoccupati o inattivi, ma comunque più di dipendenti e pensionati rispetto ai quali godono di minore stabilità.

 

La riforma dell’Irpef[3], ha dato luogo a una diminuzione delle aliquote medie effettive pari all’1,5% per l’intera popolazione, con riduzioni più accentuate nei tre quinti di famiglie con redditi medi e medio-alti. Fra le famiglie che migliorano la propria situazione, il beneficio medio risulta meno elevato nel quinto più povero della popolazione, caratterizzato dalla presenza di contribuenti con redditi inferiori alla soglia della no-tax area, esenti da imposta.

Le famiglie del penultimo quinto assorbono il 31,7% del beneficio totale della riforma dell’Irpef che corrisponde al 2,3% del reddito familiare. Le famiglie che peggiorano la propria situazione, subiscono, invece, una perdita più elevata nel quinto più ricco della popolazione, dove si registra oltre la metà della perdita totale.

In sei regioni su 20 l’ammontare del reddito disponibile delle famiglie italiane non ha ancora recuperato nel 2021 i valori pre-Covid. A fronte di un aumento complessivo a livello nazionale dell’1,5% tra il 2019 e il 2021, a ritrovarsi ancora con una perdita rispetto al 2019 sono in particolare le famiglie di Valle d’Aosta (-3,9%), Abruzzo (-2,2%), Molise (-1,5%), Trentino Alto Adige (-1,5%), Marche (-1,4%) e Piemonte (-0,2%). Mentre a livello provinciale il reddito disponibile delle famiglie diminuisce di più a Venezia (-5,1%), Rimini (-4,5%), Fermo (-4,5%), L’Aquila (-4,5%) e nuovamente Aosta (-3,9%). Sul lato opposto, invece, a poter contare su aumenti più elevati di reddito per le famiglie sono il Lazio (+5,0%), la Lombardia (+2,7%), la Sicilia (+2,7%), l’Umbria (+2,4%) e, a pari merito, la Campania e il Friuli-Venezia Giulia (+1,9%). Quanto alle province, gli incrementi più alti si registrano soprattutto a Rieti (+9,8%), Latina (+9,0%), Caserta (+7,9%), Viterbo (+7,5%) e Grosseto (+7,4%). Passando ad esaminare il reddito pro-capite, è Milano a guidare la classifica nel 2021: con 33.317 euro a testa i cittadini meneghini mostrano una disponibilità di portafoglio superiore del 68,6% a quella della media degli italiani. Mentre Enna è la provincia meno ricca d’Italia. Rispetto al 2019, 18 province non hanno recuperato i livelli di reddito pro capite.

 

Quasi un terzo del reddito delle famiglie si concentra in Lombardia e Lazio, ma il Trentino Alto Adige è al top per reddito pro capite. In effetti, nel 2021 la Lombardia concentra il 20,3% del reddito complessivo degli italiani, seguita da Lazio (10,4%) ed Emilia Romagna (8,9%). Ma guardando alla classifica dei valori pro capite sempre nel 2021 è il Trentino Alto Adige con 24.036 euro a conquistare il primo posto confermando la posizione già acquisita nel biennio precedente, mentre la Lombardia con 23.749 euro si posiziona seconda rinsaldando la posizione del 2020 sull’Emilia Romagna che scende al terzo posto con 23.336 euro.

Tra gli altri cambiamenti nel ranking regionale osservati tra il 2019 e il 2021 si segnalano la Valle d’Aosta che perde ben due posizioni (passa dal 5° al 7° posto), mentre oltre all’Emilia-Romagna ne perdono una Veneto (dal 9° al 10° posto) e Puglia (dal 16° al 17° posto). Guadagnano invece una posizione in aggiunta alla Lombardia, il Piemonte (dal 6° al 5° posto), il Friuli-Venezia Giulia (dal 7° al 6° posto), il Lazio (dal 10° al 9° posto) e la Basilicata (dal 17° al 16° posto, passando per un 15° nel 2020).

 

Capacità di spesa: Tutte le macro aree hanno superato i livelli di reddito disponibile pro capite antecedente alla crisi pandemica, ma con diverse velocità. In particolare, il Nord-Est registra la crescita più bassa (+0,4% rispetto alla media nazionale dell’1,5%), il Centro Italia segna un +2,9% con una Italia nord-occidentale che rileva un incremento del +1,6% e il Mezzogiorno che aumenta dell’1,2%. Nonostante una variazione sostanzialmente allineata alla media italiana, nel 2021 il reddito disponibile pro capite nel Mezzogiorno è ancora di circa il 25% inferiore al dato medio italiano, pur facendo registrare un lieve miglioramento (0,3 punti) rispetto al livello del 2019.

 

18 province stanno peggio del 2019

Sono in tutto 18 le province per le quali il recupero tra il 2019 e il 2021 in termini di reddito pro capite non si è compiuto. Se Prato e Rimini sono al di sotto del dato 2019 rispettivamente del 5,9% e del 4,7%, accompagnate però da crescita o stabilità della popolazione (come nel caso di Firenze), per altre province la riduzione riscontrata (superiore al 2%) si accompagna anche a una contrazione della popolazione, come nel caso di Venezia, Fermo, Aosta, l’Aquila, Teramo e Pescara, aspetto che denota un maggior deterioramento dell’indice.

 

In sofferenza le province più piccole

A fronte di una dinamica di crescita del reddito disponibile dell’1,5%, le province di minor dimensione demografica (circa un quarto del totale, aventi meno di 231 mila abitanti) fanno registrare un incremento solo dello 0,9%, laddove il reddito pro capite di queste aree è già più basso dell’11,4% rispetto al valore medio italiano (17.499 euro contro 19.761 euro). Per contro, nelle province più grandi e nelle aree metropolitane la crescita del reddito disponibile è stata tra il 2019 e il 2021 dell’1,6% e il livello pro capite è superiore di 6,7 punti rispetto alla media Italia.

 

La distribuzione dei redditi – dati MEF

L’85% dei circa 41,2 milioni di contribuenti Irpef detiene prevalentemente reddito da lavoro dipendente o pensione e solo il 6,3% del totale ha un reddito prevalente derivante dall’esercizio di attività d’impresa o di lavoro autonomo, compreso anche quello in regime forfetario e di vantaggio. La percentuale di coloro che detengono in prevalenza reddito da fabbricati è pari al 4,1%. Da tener presente che si tratta di dati riferiti ad un periodo di forte contrazione del PIL (-7,8% in termini nominali e -9,0% in termini reali), caratterizzato da un contesto macroeconomico influenzato dalla crisi dovuta alla pandemia da COVID-19 e dalle misure di contenimento adottate.

 

La classifica delle Regioni più ricche d’Italia conferma il Nord in testa. Tra le più ricche troviamo la Lombardia, il Trentino, la Liguria e la Valle d’Aosta. Il patrimonio pro capite per i nuclei familiari in Liguria, Trentino e Valle d’Aosta supera i 235 mila euro: Bolzano arriva a toccare quota 272.500 euro. La Liguria è la Regione in cui il patrimonio di attività reali, quali abitazioni, altri immobili, terreni, impianti di vario genere e macchinari, è più in assoluto arrivando a toccare quota 173 mila euro. Al secondo posto il Trentino con 169 mila euro.

All’opposto rappresentato dalle Regioni in cui si guadagna di meno e il patrimonio pro capite è più basso: Calabria, Puglia e Sicilia che non arrivano a quota 100.000 euro. In Basilicata invece il reddito pro capite arriva a quota 10.100 euro e supera le tre Regioni sopra citate.

 

La classifica è la seguente: Trentino-Alto Adige 42.300; Lombardia 38.200; Emilia-Romagna 35.300; Valle d’Aosta 35.200; Veneto 33.100; Lazio 32.900; Friuli-Venezia Giulia 31.000; Toscana 30.500; Piemonte 30.300; Liguria 29.678; Marche 26.600; Abruzzo 24.400; Umbria 24.300; Sardegna 21.300; Basilicata 20.800; Molise 19.500; Puglia 19.000; Campania 18.200; Sicilia 17.400; Calabria 17.100

 

Per quanto riguarda i Comuni più ricchi di Italia, il Nord Ovest si conferma il più ricco di Italia, secondo i dati diffusi dal ministero dell’Economia e delle Finanze. Se, invece, si analizzano i Comuni più popolosi emerge anche l’Emilia-Romagna.

La classifica dei redditi Irpef vede in testa da Milano, unica grande città a superare la soglia dei 30mila euro pro capite (31.778 per l’esattezza); subito dietro Padova (25.487), Parma (25.355) e Bologna (25.334). Al quarto posto Roma (24.964), dove i contribuenti dichiarano quasi 7mila euro in meno rispetto a Milano.

Com’è facile osservare, anche per questo indicatore, l’Italia appare divisa in due, con il Mezzogiorno che si conferma l’area in ritardo di sviluppo più popolosa d’Europa. L’intera popolazione del Mezzogiorno vive in territori con un Pil pro-capite inferiore alla media nazionale (14,7% nel Centro-Nord), e oltre 6 residenti ogni 10 in aree con un PIL pro-capite largamente inferiore.

 

Di seguito la sintesi dei dati diffusi dal Ministero dell’Economia e delle Finanze Mef relativi alle dichiarazioni dei redditi del 2021 che riguardano l’anno fiscale 2020, vale a dire l’anno di insorgenza della pandemia, fenomeno che – come detto – ha avuto un impatto sulle finanze degli italiani. Il reddito medio dichiarato su base nazionale si è infatti fermato a 21.570 euro, l’1,1% in meno rispetto all’anno precedente.

Al solito, la Lombardia la fa da padrone quasi assoluto; il centro “più ricco” risulta essere Basiglio, in provincia di Milano, dove i contribuenti in media dichiarano al fisco 44.684 euro a testa. Subito dietro, con 36.894 euro, Cusago, sempre nel milanese, e Torre Isola, ancora Lombardia ma dalle parti di Pavia (34.568 euro in media).

Per uscire dai confini della regione più popolosa e ricca d’Italia bisogna scendere fino al quarto posto dove troviamo il mare della Liguria, quello su cui si affacciano le ville di Pieve Ligure, in provincia di Genova. Là i residenti dichiarano mediamente 32.842 euro.

 

La top ten, come mostra il grafico, è tutta appannaggio del Nord Ovest, dal momento che l’unico altro comune non lombardo nelle prime posizioni risulta Pino Torinese (provincia di Torino) con 32.122 euro di reddito medio. Nel complesso, Gabicce Mare (provincia di Pesaro e Urbino), Lajatico (Pisa) e Cugnoli (Pescara) sono gli unici centri tra i primi 30 al di fuori di quell’area geografica.

 

Se ci si limita ai Comuni più popolosi la geografia della ricchezza cambia ma non troppo con l’Emilia Romagna che fa capolino. La classifica dei redditi Irpef vede in testa da Milano, unica grande città a superare la soglia dei 30mila euro pro capite (31.778 per l’esattezza). Subito dietro Padova (25.487), Parma (25.355) e Bologna (25.334). Al quarto posto Roma (24.964), dove i contribuenti dichiarano quasi 7mila euro in meno rispetto a Milano.

 

Estremamente preoccupante la situazione del Mezzogiorno che vede ben 22 province con un reddito disponibile pro-capite nel 2021 inferiore di oltre il 25% alla media nazionale.

 

Cresce – dati Oxfam – tra il 2020 e il 2021 la concentrazione della ricchezza in Italia[4]: la quota detenuta dal 10% più ricco degli italiani (6 volte quanto posseduto alla metà più povera della popolazione) è aumentata di 1,3 punti percentuali su base annua a fronte di una sostanziale stabilità della quota del 20% più povero e di un calo delle quote di ricchezza degli altri decili della popolazione.

La ricchezza nelle mani del 5% più ricco degli italiani (titolare del 41,7% della ricchezza nazionale netta) a fine 2021 era superiore a quella detenuta dall’80% più povero dei nostri connazionali (il 31,4%). I super ricchi con patrimoni superiori ai 5 milioni di dollari (lo 0,134% degli italiani) erano titolari, a fine 2021, di un ammontare di ricchezza equivalente a quella posseduta dal 60% degli italiani più poveri.  Nonostante il calo del valore dei patrimoni finanziari dei miliardari italiani nel 2022, dopo il picco registrato nel 2021, il valore delle fortune dei super-ricchi italiani (14 in più rispetto alla fine del 2019) mostra ancora un incremento di quasi 13 miliardi di dollari (+8,8%), in termini reali, rispetto al periodo pre-pandemico.

L’altro lato della medaglia è rappresentato dai poveri sempre più poveri.

 

Nel 2021 poco più di un quarto della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale (25,4%), quota sostanzialmente stabile rispetto al 2020 (25,3%) e al 2019 (25,6%).

In lieve peggioramento la disuguaglianza nel 2020: il reddito totale delle famiglie più abbienti è 5,8 volte quello delle famiglie più povere (5,7 nel 2019). Questo valore sarebbe stato decisamente più alto (6,9) in assenza di interventi di sostegno alle famiglie.

Il reddito netto medio delle famiglie è di 32.812 euro annui nel 2020. Gli interventi di sostegno (reddito di cittadinanza e altre misure straordinarie) ne hanno limitato il calo (-0,9% in termini nominali, -0,8% in termini reali). Questi dati sono tratti dal Report “Condizioni di vita e reddito delle famiglie”[5] come quelli che seguono.

 

Nel 2021, il 20% delle persone residenti in Italia risulta a rischio di povertà (11 milioni e 800 mila) avendo avuto, nel 2020 un reddito netto inferiore al 60% di quello mediano (10.519 euro). A livello nazionale la quota rimane stabile rispetto ai 2 anni precedenti (20% nel 2020 e 2019), mentre si osserva un miglioramento nel Mezzogiorno e al Centro e un aumento del rischio di povertà nelle ripartizioni del Nord.

 

Il 5,6% della popolazione (3 milioni e 300 mila individui) si trova in condizioni di grave deprivazione materiale, presenta cioè 4 dei 9 segnali di deprivazione individuati dall’indicatore Europa 2020, inoltre, l’11,7% degli individui vive in famiglie a bassa intensità di lavoro, ossia con componenti tra i 18 e i 59 anni che hanno lavorato meno di 1/5 del tempo, percentuale in aumento rispetto all’11% dell’anno precedente e al 10% del 2019.

 

La popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale (indicatore composito), ovvero la quota di individui che si trova in almeno una delle suddette tre condizioni (riferite a reddito, deprivazione e intensità di lavoro), è pari al 25,4% (circa 14 milioni 983 mila persone), sostanzialmente stabile rispetto al 2020 (25,3%) e al 2019 (25,6%). Questo andamento sintetizza, nel triennio considerato, il peggioramento dell’indicatore di bassa intensità lavorativa, il miglioramento di quello di grave deprivazione materiale e la sostanziale stabilità dell’indicatore del rischio di povertà nei tre anni.

Il Mezzogiorno rimane l’area del Paese con la percentuale più alta di individui a rischio di povertà o esclusione sociale (41,2%), stabile rispetto al 2020 (41%) e in diminuzione rispetto al 2019 (42,2%). In questa ripartizione aumenta la quota di individui che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (20,6% contro 19,2% del 2020 e 17,3% del 2019) e diminuisce quella degli individui a rischio di povertà (33,1% rispetto a 34,1% del 2020 e 34,7% del 2019). La riduzione del rischio di povertà o esclusione sociale riguarda in particolare la Puglia e la Sicilia mentre è in sensibile aumento in Campania per l’incremento della grave deprivazione e della bassa intensità lavorativa.

Nel triennio 2019-2021 il rischio di povertà o esclusione sociale si riduce anche nel Centro (21% contro 21,6% del 2020 e 21,4% del 2019), trainato da Marche e Lazio, mentre aumenta in Umbria e rimane invariato in Toscana. Nel Nord-est, ripartizione con la minore quota di popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale, questo indicatore peggiora nel 2021 (14,2% rispetto al 13,2% del 2020 e del 2019), con il Trentino-Alto Adige e l’Emilia Romagna stabili sia nel 2020 sia nel 2021, il Friuli Venezia Giulia in calo nel 2021 (dopo il sensibile aumento nel 2020), il Veneto in crescita. Nel Nord-Ovest, il rischio di povertà o esclusione sociale riguarda il 17,1% degli individui (16,9% nel 2020, 16,4% nel 2019), con la Lombardia stabile, il Piemonte e la Liguria in aumento.

A elevato rischio povertà sono le famiglie numerose e quelle con almeno 1 componente straniero. Sempre nel 2021, il rischio di povertà o esclusione sociale si riduce per coloro che vivono in famiglie in cui la fonte principale di reddito è il lavoro dipendente (18,4% rispetto a 18,7% del 2020 e 20% del 2019) e il lavoro autonomo (22,4%, da 24,3% nel 2020 e 25,1% nel 2019), mentre aumenta per coloro che possono contare principalmente sul reddito da pensioni e/o trasferimenti pubblici (33,9% da 33,5% nel 2020 e 31,8% nel 2019).

 

Il Rapporto evidenzia che nell’anno della pandemia (2020) il reddito delle famiglie si è ridotto rispetto all’anno precedente; ad attenuare la contrazione dei redditi da lavoro è stata la crescita dei trasferimenti pubblici e il ricorso alle integrazioni salariali. Mentre i redditi familiari da lavoro dipendente e da lavoro autonomo sono diminuiti del 5% e del 7%, i redditi da trasferimenti sono cresciuti del 9% in virtù delle misure messe in campo per fronteggiare l’impatto dell’emergenza sanitaria, raggiungendo una quota pari al 37% dei redditi familiari.

 

I redditi familiari da capitale si sono invece ridotti del 4,9% a causa della contrazione degli affitti figurativi, la perdita, rispetto ai livelli del 2007, resta ampia per i redditi familiari da lavoro autonomo (-25%) rispetto ai redditi da lavoro dipendente (-12,6%), mentre i redditi da capitale mostrano una perdita del 15,6% attribuibile alla dinamica negativa degli affitti figurativi (-18%)».

 

Per misurare la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi è possibile ordinare gli individui dal reddito equivalente più basso a quello più alto, classificandoli in cinque gruppi (quinti). Il primo quinto comprende il 20% degli individui con i redditi equivalenti più bassi, l’ultimo quinto il 20% di individui con i redditi più alti. Il rapporto fra il reddito equivalente totale ricevuto dall’ultimo quinto e quello ricevuto dal primo quinto (rapporto noto come S80/S20) fornisce una prima misura sintetica della disuguaglianza. La disuguaglianza rimane alta anche se c’è stata una lieve riduzione del reddito del quinto più ricco della popolazione; una delle misure utilizzate in Europa per valutare la disuguaglianza tra i redditi è l’indice di concentrazione di Gini e nel 2019 il valore per l’Italia è pari a 0,325, in miglioramento rispetto all’anno precedente (0,328) che peggiora nel 2020 (0,329).

 

Nel 2020, per i 26 paesi Ue27 per i quali è disponibile l’indicatore, l’Italia si trova al 19° posto; in Italia l’indice di Gini è più elevato del dato nazionale nel Sud e nelle Isole (0,346 nel 2019; 0,349 nel 2020); peggiora tra il 2019 e il 2020, ma resta inferiore al dato medio nazionale nel Nord-ovest (0,303 nel 2019 e 0,314 nel 2020) e nel Nord-est (0,277 nel 2019 e 0,288 nel 2020), al Centro invece l’indice resta stabile sotto la media nazionale in entrambi gli anni (0,309).

 

Dal Rapporto emerge che solo grazie a queste misure è stata evitata una catastrofe sociale: “per valutare l’impatto dei trasferimenti sui principali indicatori della disuguaglianza si può utilizzare la distribuzione dei redditi equivalenti al netto dei trasferimenti emergenziali, del RdC o di entrambe le misure. In questo modo si può osservare l’entità del contributo delle misure di sostegno nel 2020: senza l’insieme dei trasferimenti emergenziali il rapporto S80/S20 risulterebbe pari a 6,2, senza il RdC a 6,4 e senza entrambe le misure a 6,9, valori superiori al 5,8 osservato. L’indice di Gini, che risulta pari a 0,329 nel 2020, sarebbe cresciuto fino allo 0,338 senza i trasferimenti emergenziali e allo stesso valore senza il RdC, mentre al netto di entrambi la concentrazione dei redditi sarebbe salita fino a 0,346».

 

Sul fronte dei redditi nel 2022 l’Italia, grazie ad alcuni provvedimenti, come la riforma Irpef, l’assegno unico e universale per i figli a carico, le indennità una tantum di 200 e 150 euro, i bonus per le bollette elettriche e del gas e l’anticipo della rivalutazione delle pensioni, è divenuta un Paese leggermente meno “diseguale”. Lo certifica l’Istat che stima come l’insieme delle politiche sulle famiglie abbia abbassato l’indice di Gini (che misura appunto i divari di reddito) da 30,4% a 29,6%, mentre il rischio di povertà si riduce dal 18,6% al 16,8%.

 

Con l’introduzione dell’assegno unico il rischio di povertà per i minori sotto i 14 anni si è ridotto di 3,8 punti percentuali mentre è sceso di 2,5 per quella da 15 a 24 anni, secondo uno studio Istat sulla redistribuzione del reddito in Italia nel 2022. Il beneficio medio dell’Assegno unico è stimato pari a 1.714 euro (circa 143 euro mensili) per le famiglie che migliorano la propria situazione economica. Gli importi medi più elevati si registrano per le famiglie appartenenti al secondo (2.085 euro) e al terzo quinto (1.949 euro) Tuttavia, la quota più ampia di famiglie beneficiarie appartiene ai primi due quinti che percepiscono anche la quota maggiore di spesa sul totale. Il beneficio in rapporto al reddito familiare è più elevato nei primi tre quinti.

 

L’introduzione dell’assegno unico determina anche un peggioramento dei redditi per alcune tipologie di famiglie. Per questo sottoinsieme la perdita media è pari a 591 euro (circa 50 euro mensili). La perdita più elevata si ha nei due quinti più ricchi (rispettivamente 887 e 951 euro) e in quello più povero (752 euro). La percentuale maggiore di famiglie svantaggiate dalla misura e la maggiore quota di perdita sul totale si concentrano nei primi due quinti; la perdita, in rapporto al reddito familiare, è più elevata nel primo quinto. Si tratta di casi in cui l’assegno per il nucleo familiare aveva un importo maggiore del nuovo assegno unico.

 

La Caritas fa rilevare come in Italia una persona su quattro a rischio povertà ed esclusione sociale[6]. Il rapporto “L’anello debole” registra nel 2021 un aumento del 7,7% degli assistiti Caritas e oltre la metà dei casi sono di povertà ereditaria.

La situazione italiana si presenta “molto preoccupante”. Nel 2021 la povertà assoluta conferma i massimi storici del 2020 colpendo 1 milione e 960mila famiglie, pari a 5.571.000 persone che non sono in grado di comprare beni e servizi. La povertà assoluta si concentra sui minori (14,2%, quasi 1,4 milioni) per diminuire al crescere dell’età (oltre 65 anni 5,3%).

 

La povertà nei dati Istat. L’incidenza si conferma più alta nel Mezzogiorno dove sale dal 9,4% nel 2020 al 10% nel 2021, mentre scende al Nord, in particolare Nord-Ovest (da 7,9% al 6,7% nel 2021). È cresciuta più della media nelle famiglie numerose (con almeno quattro persone), nelle famiglie con persona di riferimento con età tra i 35 e 55 anni, nelle famiglie di stranieri e in quelle con almeno un reddito da lavoro. Nel 2021 si è anche registrato un forte incremento di poveri nelle persone tra i 50 e i 60 anni d’età, che non hanno ancora maturato il diritto di andare in pensione, messe in crisi dai cambiamenti nel mercato del lavoro, poiché prive di strumenti culturali o qualifiche per poter trovare una nuova occupazione dopo un licenziamento o un fallimento. Il Rapporto sottolinea che i poveri assoluti in Italia sono in forte crescita dalla crisi finanziaria globale scoppiata nel 2008, aumentando ancora nel 2020 a causa della pandemia da Covid-19 e sempre negli stessi gruppi che avevano subìto gli effetti peggiori delle crisi precedenti ossia i minori, i lavoratori a termine, le donne e gli immigrati. Già nel 2019 una persona su quattro (25,6%) era a rischio di cadere nella povertà assoluta, a fronte di una media europea di una su cinque, e nel 2021 lo scenario è rimasto pressoché immutato (25,2%).

Seppur dal 2016 al 2020 una famiglia su quattro abbia ricevuto un aiuto economico, il rischio di povertà non si è ridotto, si legge nel Rapporto, poiché non si è agito su reddito e lavoro, i due elementi chiave per proteggere dal progressivo impoverimento.

 

La povertà nei Centri di ascolto Caritas. Nel 2021 è aumentato del 7,7% il numero delle persone supportate rispetto al 2020 e sono stati erogati quasi 1 milione e 500 mila interventi. I beneficiari hanno un’età media di 45,8 anni e uomini e donne chiedono aiuto in pari misura. Nei centri di ascolto del Sud e nelle isole prevalgono le persone con cittadinanza italiana (rispettivamente il 68,3% e il 74,2%). Aumentano i disoccupati o inoccupati e le persone che hanno al massimo la licenza media, toccando i valori più alti al Sud (75%) e nelle isole (84,7%). Tra loro figurano anche persone analfabete o senza alcun titolo di studio. Si rafforza così la correlazione tra deprivazione e bassi livelli di istruzione. Tra gli interventi erogati, al primo posto troviamo i beni e servizi materiali (mense, distribuzione pacchi viveri, prodotti igiene personale), seguiti dai sussidi economici. Nel 2021 oltre la metà degli assistiti ha manifestato due o più ambiti di bisogno: prevalgono le difficoltà economiche legate al reddito insufficiente (63,6%), la disoccupazione (66,7%), la mancanza di una casa (43,5%) e i problemi familiari causati da divorzi e separazioni (29,9%).

 

Povertà ereditaria: In Italia per le persone che si trovano nelle posizioni più basse della scala sociale si registrano scarse possibilità di accedere ai livelli superiori (mobilità ascendente), a differenza di chi proviene da famiglie avvantaggiate. Viene chiamata “povertà intergenerazionale” o “ereditaria” e si usa l’espressione dei “pavimenti appiccicosi” (sticky grounds) e dei “soffitti appiccicosi” (sticky ceilings). Secondo sempre la Caritas questo tipo di povertà da ben tre generazioni interessa nel 2021 residenti per lo più nelle isole (65,9%) e nel Centro (64,4%). Tra i nati da genitori senza alcun titolo, quasi un beneficiario su tre si è fermato alla sola licenza elementare, circa un figlio su cinque ha mantenuto la stessa posizione occupazionale del padre e il 42% occupa un livello ancora più basso nella scala sociale (mobilità discendente). Sebbene più di un terzo abbia vissuto la mobilità ascendente, ciò non corrisponde sempre a un adeguato inquadramento contrattuale e retributivo. In Italia occorrono cinque generazioni affinché una persona che nasce da una famiglia povera possa raggiungere un livello di reddito medio.

 

Ad accrescere i problemi il crollo dei  salari per oltre 6 milioni di dipendenti privati, così gli adeguamenti non copriranno l’inflazione. Nuovi accordi tra le parti sociali sono particolarmente necessari per i circa 6,3 milioni di dipendenti del settore privato (oltre la metà del totale dei dipendenti privati) in attesa del rinnovo dei contratti nazionali alla fine del mese di settembre 2022.  Lavoratori che rischiano, con le regole di indicizzazione attuali, di vedere un adeguamento dei salari, calati in termini reali del 6,6% nei primi nove mesi del 2022, insufficiente a contrastare l’aumento dell’inflazione.

 

La riduzione delle disuguaglianze rappresenta una questione cui nessun governo ha finora attribuito centralità d’azione e che si è trovato ridimensionata sia nell’ultima campagna elettorale che in avvio di legislatura. La nuova stagione politica si sta contraddistinguendo più per il riconoscimento e la premialità di contesti e individui che sono già avvantaggiati che per la tutela dei soggetti più deboli. Invece di rendere più equo ed efficiente il reddito di cittadinanza, lo si abroga dal 2024, adottando per il 2023 un approccio categoriale alla povertà che, noncurante del contesto e delle opportunità territoriali di lavoro, vede nell’impossibilità di lavorare e non nella condizione di bisogno il titolo d’accesso al supporto pubblico. Invece di porre fine a iniqui trattamenti fiscali differenziati tra i contribuenti, si rafforzano regimi come la flat-tax per le partite IVA. Invece di puntare a un contrasto senza quartiere all’evasione fiscale, ci si prodiga in interventi condonistici che sviliscono la fedeltà fiscale e incentivano comportamenti opportunistici.

 

 

Spesa sociale

 

Con il termine spesa sociale si intende la quota della spesa pubblica e della spesa privata destinata a coprire il sistema dello Stato sociale (welfare state), ovvero la somma di denaro utilizzata dallo Stato per garantire i bisogni primari dei cittadini. Sotto questa voce vanno un numero consistente di servizi offerti ai cittadini, dall’assistenza agli anziani al sostegno alle famiglie e ai minori, dalla sistemazione di immigrati agli aiuti ai disabili, dal sostegno ai senza fissa dimora agli aiuti a tossicodipendenti o alcolisti.

Nel 2019 la spesa per i servizi sociali in Italia è stata pari allo 0,42% del PIL arrivando a 0,7% con le compartecipazioni degli utenti e del servizio sanitario nazionale (SSN). Il dato è soltanto un terzo di quanto impegnano i bilanci di altri Paesi europei (2,1-2,2% di media). La spesa per abitante in Italia è pari a 124 euro con differenze territoriali molto ampie: al Sud è di 58 euro, cioè meno della metà del resto del Paese. Un cittadino meridionale, quindi, riceve meno della metà dei servizi e delle prestazioni di un italiano residente nel Centro e nel Nord-Ovest e circa un terzo rispetto a un abitante del Nord-Est. Lo scarto fra i due poli estremi – la provincia autonoma di Bolzano (567 euro) e la Calabria (22 euro) – porta a una distanza di quasi 25 volte.

In particolare, la spesa sociale dei comuni del Sud Italia appare minore che nel resto del Paese. Infatti, i valori più bassi in assoluto vengono toccati nelle province calabresi di Vibo Valentia (€ 6), Reggio Calabria (€ 22), Crotone (€ 24 euro), Cosenza e Catanzaro (€ 25) a cui seguono le tre province campane di Caserta (€ 33), Avellino (€ 46) e Benevento (€ 47).

I valori più alti si riscontrano in Trentino e Friuli, con Bolzano (€ 567) e Trieste (€ 389); seguono le province di Oristano, Gorizia, Cagliari, Udine e Trento con valori superiori ai 250 euro pro-capite. In linea generale, le province del Centro-Nord hanno valori di spesa maggiori, anche se parecchie mostrano una spesa inferiore ai 100 euro pro-capite, in particolare: Sondrio (€ 84), Treviso (€ 85), Belluno (€ 86), Massa-Carrara (€ 89), Alessandria (€ 91), Pavia (€ 93), Vicenza (€ 95), Vercelli, Rovigo e Perugia (€ 96) e Asti

(€ 97). Va tuttavia ricordato che l’oggetto di analisi, a causa della specifica struttura del dataset, è la spesa al netto delle compartecipazioni.

E’ quanto rilevato da un’indagine del Cnel sulla spesa sociale nel nostro Paese[7]. Sono alcuni dei dati che emergono dal Rapporto “I servizi sociali territoriali: una analisi per territorio provinciale”, redatto dall’Osservatorio Nazionale sui Servizi Sociali Territoriali del CNEL realizzato in collaborazione con ISTAT sul database informativo 2018 e i trend di spesa 2019.

Le prime analisi relative al 2019 confermano un trend di spesa sociale positivo al netto delle compartecipazioni, pari a +0,48%, passando così da 7,472 mld di euro a 7,508 mld di euro (+35,9 milioni).

Le aree di intervento che assorbono la maggior parte della spesa sociale sono tre: Famiglia e minori, Disabili e Anziani. Nel 2018 per la prima si spendono circa 2,8 mld euro, pari al 37,9% della spesa dei Comuni; per la seconda circa 2 mld di euro, pari al 26,8%; per la terza circa 1,3 mld di euro, pari al 17,2%. Le spese per l’assistenza domiciliare risultano modeste: meno della metà di quella complessiva investita per l’area anziani e meno di 1/6 per l’area disabili.

 

 

 

 

[1] https://www.istat.it/it/files//2022/11/REDISTRIBUZIONE-REDDITO-IN-ITALIA_2022.pdf

[2] Il coefficiente di Gini, introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini[1], è una misura della diseguaglianza di una distribuzione. È spesso usato come indice di concentrazione per misurare la diseguaglianza nella distribuzione del reddito o anche della ricchezza. È un numero compreso tra 0 ed 1. Valori bassi del coefficiente indicano una distribuzione abbastanza omogenea, con il valore 0 che corrisponde alla pura equidistribuzione, ad esempio la situazione in cui tutti percepiscono esattamente lo stesso reddito; valori alti del coefficiente indicano una distribuzione più diseguale, con il valore 1 che corrisponde alla massima concentrazione, ovvero la situazione dove una persona percepisca tutto il reddito del paese mentre tutti gli altri hanno un reddito nullo.

[3] https://www.istat.it/it/archivio/277878

[4] Oxfam: La disuguaglianza non conosce crisi. https://www.oxfam.org/en

[5] https://www.istat.it/it/files//2022/10/Condizioni-di-vita-e-reddito-delle-famiglie-2020-2021.pdf

[6] https://www.caritas.it/wp-content/uploads/sites/2/2022/10/rapportopoverta2022b.pdf

[7] Cnel: rapporto sulla spesa sociale nel nostro Paese – http://www.regioni.it/newsletter/n-4367/del-20-09-2022/cnel-rapporto-sulla-spesa-sociale-nel-nostro-paese-24695/

Prof. Giuseppe Castello

Giuseppe Castello è nato a Caposele [AV] il 06 agosto 1949. Ha studiato Medicina & Chirurgia presso l'Università degli Studi di Napoli dove si è laureato nel 1974. Leggi di più...

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