La logica delle disuguaglianze

Autonomia differenziata: un pericoloso grande bluff

Sull’argomento abbiamo molto scritto, e tutti questi scritti danno la motivazione al titolo scelto per il presente articolo che inequivocabilmente e tangibilmente dimostra che quanto alcune forze politiche, ma soprattutto alcuni personaggi, stanno ponendo in atto sia soltanto un grande bluff, intriso di malevolenza e incultura.

Il disegno di legge teso ad attuare il comma terzo dell’articolo 116 della Costituzione, permettendo alle regioni a statuto ordinario di chiedere allo Stato “ulteriori forme e condizioni di autonomia” il 23 gennaio ha avuto il via libera dal Senato; il testo è ora passato alla Camera dove lo attende la seconda lettura prima dell’approvazione definitiva.

La riforma del Titolo V, che ha inserito l’autonomia differenziata in Costituzione, risale al 2001; col testo votato dal Senato si attiva il trasferimento delle 23 materie elencate dagli articoli 116 e 117 alle regioni che le chiederanno concludendo intese con lo Stato.

Su 23 materie, 14 non potranno passare alle regioni prima che vengano definiti i Livelli essenziali delle prestazioni o Lep (ovvero i livelli minimi di servizi da assicurare al cittadino in maniera uniforme in tutto il territorio nazionale) con relative risorse.

L’elenco include norme generali sull’istruzione; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali.

Al di fuori dai Lep, pertanto subito trasferibili alle regioni, figurano i rapporti internazionali e con l’UE, il commercio con l’estero, le professioni, la protezione civile, la previdenza complementare e integrativa, il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, le casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale, gli enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Si aggiunge pure l’organizzazione della giustizia di pace, soppressa dalle materie oggetto di Lep in virtù di un emendamento approvato dal Senato.

Tramite una clausola “salva unità nazionale” è stato anche previsto che, se dalla determinazione dei Lep dovessero emergere extracosti a carico delle finanze pubbliche, non si proceda al trasferimento di funzioni alle regioni senza aver stanziato le risorse per assicurare i Lep sull’intero territorio nazionale, non solo alle regioni che hanno richiesto l’autonomia differenziata bensì pure alle altre.

Come facilmente rilevabile, la norma sui Lep è inattuabile, perché per assicurare le stesse risorse a tutte le Regioni, e ridurre i divari tra i territori, serviranno molte risorse, e quindi la clausola di “invarianza di spesa” non potrà essere rispettata. Mancando qualsiasi fondamento economico/finanziario sarà impossibile definire i famosi Lep. Ad oggi, il reperimento dei fondi per i Lep appare ancora in alto mare.

E’ questo un passaggio fondamentale per capire perché proporre il disegno di legge sull’Autonomia differenziata è un bluff.

I Lep subentrano ai Lea (livelli essenziali di assistenza da garantire a tutti i cittadini italiani) e ne allargano lo spettro al sociale, ad esempio all’assistenza agli anziani, alle persone disabili, aumentando le prestazioni. Però, come essi debbano essere aggiornati e definiti e come debbano essere finanziati è un grande mistero. Tutti sanno che un principio fondamentale per proporre delle riforme è il loro supporto economico-finanziario (“senza soldi non si cantano messe”). In effetti, perché di fatto in questo momento non c’è né una definizione dei Lep, né tanto meno una loro quantificazione, il disegno di legge sarebbe improponibile (del resto nella stessa legge sono previsti tre anni per definirli). E chi si dovrebbe occupare di questo? non è ancora stato deciso.  Pertanto i Lep vanno individuati, definiti, ma soprattutto – come accennato – vanno finanziati. Ad una valutazione spannometrica, secondo il professor Walter Ricciardi, Ordinario di Igiene all’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma, ed esperto in sanità pubblica, “i Lep nella loro globalità potrebbero arrivare a costare qualcosa come 100 miliardi, cifre non alla portata del nostro Paese”.

Inoltre, quali dovrebbero essere nell’ambito dei Lep le prestazioni irrinunciabili? Mentre per i Lea esiste una tradizione e addirittura un meccanismo codificato di aggiornamento, nel caso dei Lep è tutto da inventare. E a livello Europeo non ci sono linee di indirizzo.

Fino ad oggi i risultati dei tentativi di devoluzione in Italia come quelli, ad esempio, che hanno portato alla istituzione dei Lea non sono stati positivi considerato che hanno portato a fenomeni quali la differenza dell’aspettativa di vita per cui oggi “nascere al Sud – continua Ricciardi – significa avere un’aspettativa di vita di quasi 4 anni inferiore rispetto al Nord. E questo perché, nonostante non ci siamo spinti troppo avanti, come accadrà con i Lep, i Lea non sono stati applicati in maniera omogenea in tutte le Regioni e soprattutto non è stata applicata un’adeguata gestione alla complessità della sanità. E dunque – continua Ricciardi – se l’esperienza per una cosa molto meno “spinta” è questa, figuriamoci cosa potrà accadere affidando totalmente alle Regioni le competenze in 23 materie. Significherà, non solo dividere il Paese, ma spezzarlo in maniera definitiva. Quello che sta avvenendo non credo rispecchi appieno la volontà della maggior parte dei cittadini italiani, ad eccezione magari di quelli che vivono nelle Regioni più ricche, destinate forse ad andare sempre meglio”. E allora cosa bisognerebbe fare? “Un appello alle forze politiche a ragionare, a non fare questo salto nel buio che di fatto porterà alla frammentazione del Paese, peraltro in un momento in cui le sfide globali – economiche, climatiche, geopolitiche, belliche – sono enormi e possono essere vinte solo con un’aggregazione che, per lo meno, ci dia una dimensione almeno europea. Invece la spaccatura, la frammentazione, la divisione non ci creerà altro che marginalità e irrilevanza”.

Non è neppure ipotizzabile che delle linee di indirizzo centrale possano mitigare questa situazione. “L’esperienza di vent’anni ci dice che a poco serve che lo Stato suggerisca delle norme, se poi non ha la possibilità di intervenire laddove le Regioni risultino inadempienti. Ciò comporta che questo tipo di verifica sia solo formale, mentre nella sostanza si determinerà un abbandono delle Regioni più indietro, che non hanno nessuna possibilità di recuperare rispetto a quanto faranno le regioni più ricche”. Per comprendere cosa potrebbe accadere bastano fare alcuni semplici esempi. “Se le Regioni ricche, che se lo possono permettere, stabiliranno degli stipendi più alti per i medici e gli infermieri, accanto a condizioni di lavoro più attrattive, noi assisteremo ad un esodo massivo degli operatori sanitari, che peraltro sono già pochi, dal Sud al Nord. E quindi, quei milioni di cittadini che già fanno fatica ad accedere ai servizi, a quel punto o si recheranno a Nord, o dovranno far a meno di quel servizio. Questo si sta già verificando per migliaia di persone ma in futuro rischia di verificarsi per milioni di loro”. “Stessa cosa potrebbe accadere con le innovazioni tecnologiche. Oggi – riflette sempre l’esperto – stiamo assistendo a due rivoluzioni, quella della genetica/genomica e del digitale. È chiaro che sono tecnologie che si potranno permettere solo le Regioni ricche. Per cui si creeranno grossi divari nell’accesso a procedure innovative, sia di carattere diagnostico che terapeutico. Alcune Regioni che metteranno a disposizione dei cittadini farmaci innovativi, mentre altre non li potranno garantire. E nel caso di alcune patologie, i cittadini per avere dei farmaci dovranno trasferirsi o chiedere la residenza in altre Regioni. È già successo già con la devoluzione. Figurarsi con il regionalismo differenziato”.

Prof. Giuseppe Castello

Giuseppe Castello è nato a Caposele [AV] il 06 agosto 1949. Ha studiato Medicina & Chirurgia presso l'Università degli Studi di Napoli dove si è laureato nel 1974. Leggi di più...

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